Alle origini dell’industria chimica italiana:
Gavorrano, la Montecatini e la parabola della pirite
- Federico Bertozzi
Abbarbicato alle pendici del monte Calvo, in un’area di antico insediamento etrusco, il borgo medievale di Gavorrano (Gr) sorge nel cuore delle Colline Metallifere grossetane e domina, dall’alto, il golfo di Follonica. Da placido villaggio di pastori e coltivatori di olivi, il paese balzò all’onore delle cronache nel 1898, quando, non lontano, un ex-garibaldino vi rinvenne un’importante vena di pirite: per Gavorrano, iniziò allora un secolo di formidabile sviluppo economico e demografico, legato a doppio filo alle fortune dei suoi enormi giacimenti minerari. In foto, sulla sinistra, la torre del pozzo Roma, aperto nel 1914, principale via d’uscita del materiale estratto dai 180 km di gallerie sotterranee della Montecatini.
«Gavorrano, come Ravi, Giuncarico e Caldana, si aggrappa al calcare di una collina che ha meritato, per la sua asprezza, la qualifica di montagna. Il monte Calvo, appena 350 metri, è una brusca falesia rocciosa […], balcone di pietra sul golfo di Follonica. Il paese di Gavorrano si allunga sul suo sperone più settentrionale. I turisti, oggi, non immaginano che questo piccolo paese è stato uno dei pilastri sui quali poggiava l’economia industriale italiana del ‘900.»
(Andrea Semplici, La Maremma dei musei, 2012)
Sedotti dai tesori artistici dei centri medievali, incantati dalla sapienza secolare delle mani di generazioni d’artigiani, abbacinati dallo sfolgorio estivo delle onde e di alcune fra le spiagge più belle d’Italia, per turisti, tanto italiani quanto stranieri, che si trovino ad attraversare oggi le nostre provincie, risulta assai difficile pensare alla Toscana come ad una terra di grandi industrie. Come ad una terra di fischi e di piazzali, di rotaie e grandi gru, di altiforni e di imponenti ciminiere. Eppure, fino a una trentina di anni fa, quella Toscana è esistita eccome. Lungo la costa, dalla Zona Industriale Apuana di Massa e Carrara fino ai distretti di Piombino e di Follonica, passando per Livorno e Rosignano Marittimo, così come nell’entroterra, da Lucca e Pisa fino a Firenze, attraversando Pistoia e Prato o Pontedera e la valle dell’Arno, vi avevano sede decine e decine di stabilimenti di alcuni fra i più importanti nomi del secondario italiano, da Ilva e RIV a SMI e Nuovo Pignone, da Olivetti, Stet e Dalmine ad Eni, Piaggio e Fincantieri, spaziando dalla siderurgia alla metalmeccanica, dalla chimica all’elettronica. Ecco, l’industria chimica, in Italia, è nata a Gavorrano.
Il cuore di ferro della Tuscia,
un tesoro noto già agli etruschi
Sopra: una suggestiva ricostruzione delle attività metallurgiche praticate dagli etruschi nel golfo di Baratti. Prevalentemente estratto dalle miniere dell’antica Ilva (l’odierna isola d’Elba), il minerale ferroso, in precedenza trattato sul posto, cominciò ad essere lavorato sul continente attorno al VI secolo a.C., quando le riserve boschive dell’isola, fondamentali per l’alimentazione dei processi fusori, iniziarono a scarseggiare. Da quel momento in poi, Populonia (sullo sfondo, nel disegno, con l’acropoli in alto), le cui spiagge si riempirono di migliaia di caratteristici bassiforni in pietra ed argilla, da rompere, una volta ottenuta la separazione del metallo dalle scorie, s’impose come vera e propria “Pittsburgh etrusca”, prosperando con la fabbricazione ed il commercio di utensili in ferro con tutte le nazioni del Mediterraneo per quasi mezzo millennio.
Che l’intera Toscana meridionale, nel sottosuolo, nascondesse un vero tesoro minerario, con giacimenti di rame, ferro, piombo e stagno fra i maggiori dell’intera area mediterranea, era cosa nota già agli etruschi, che nel VII secolo a.C., primi nella nostra penisola ed in tutto l’Occidente, operavano officine d’industria pesante, padroneggiando la lavorazione del bronzo e commerciando via mare con moltissime nazioni, sia in materie prime che in prodotti finiti. Florida in età romana, l’economia mineraria della Tuscia si rafforzò ulteriormente durante il Medioevo, innescando sia la fondazione di nuovi insediamenti che l’incredibile arricchimento di altri, che sull’estrazione, la lavorazione e il traffico di minerali ferrosi strutturarono la propria fortuna: è il caso, giusto per citarne qualcuno, di Porto Ferraio, sull’Isola d’Elba, presso a quello che rimane, ancor oggi, il più vasto bacino di ferro d’Europa, Campiglia Marittima, nel Livornese, che controllava importanti vene di rame e di piombo, e Massa Marittima, nel Grossetano, che, grazie al traffico di argento, da rude castello etrusco, poté trasformarsi nel libero comune di Massa Metallorum, che batteva moneta propria e poteva permettersi di costruire edifici sontuosi, atteggiandosi a grande città. Decadenza politica, peste e malaria trascinarono poi le Colline Metallifere in un lungo periodo di decadenza, conclusosi solo attorno alla metà del XVIII secolo, con l’arrivo degli Asburgo-Lorena, che promossero vaste bonifiche e rilanciarono le attività estrattive, trasformando, fra l’altro, Follonica nella capitale italiana della ghisa.
Colline Metallifere, 1898:
metti un ex-garibaldino, un geologo e un’intuizione geniale
È il 1898, quando Francesco Alberti, ex-garibaldino di Gavorrano, si mette a scavare con pala e piccone nelle vicinanze della sorgente di Fonte Vecchia, appena fuori paese: è assieme ad altri tre compaesani, e si è convinto che quanto gli ha di recente confessato il suo amico Bernardino Lotti, illustre geologo massetano incaricato della prima mappatura geologica del nuovo stato italiano, e cioè che nel ventre di quelle colline si celi una vera fortuna mineraria, non sia una mera fantasticheria. Dopo vari tentativi, intraprendenza, sudore, ed un certo grado di cocciutaggine, danno alfine il risultato sperato: strette nel granito, il gruppo localizza infatti le prime tracce di quello che si rivelerà essere un giacimento di pirite gigantesco, fra i più grandi del continente.
Sopra: Bernardino Lotti (1847-1933), figura fra le più rilevanti degli studi geologici italiani di età liberale. Attivo presso il Regio Ufficio Geologico, in qualità di geologo-rilevatore, dal 1879 al 1919, nello sforzo di preparazione della prima carta geologica dell’Italia unita, rilevò, in buona parte da solo, spostandosi a piedi od in groppa ad un mulo, l’intera superficie della Toscana e dell’Umbria. Studioso di grande preparazione ed accuratezza d’indagine, eseguì la prima mappatura geologica dell’isola d’Elba e contribuì alla scoperta dei bacini di pirite di Niccioleta, di rame di Boccheggiano e di cinabro del monte Amiata, di Pereta ed Abbadia San Salvatore, con importanti ricadute per l’economia maremmana. Fu sua, l’intuizione che pure a Gavorrano il sottosuolo nascondesse una vera fortuna di pirite.
L’“oro degli stolti”, un minerale… da arrostire!
Sopra: uno splendido aggregato di cristalli cubici di pirite. Parte della famiglia dei solfuri (formula chimica: FeS2), la pirite (simbolo IMA: Py) è un minerale piuttosto pesante (densità: ≈ 5 g/cm3) e presenta una lucentezza metallica intensa, che, ad un primo sguardo, può ricordare quella dell’oro: fu proprio questa sua caratteristica, a valerle il soprannome di “oro degli stolti”. Sfruttata per accendere fuochi fin dalla notte dei tempi, se riscaldata alla fiamma, emette un caratteristico odore di uova marce.
Combinazione di ferro e zolfo, la pirite scintilla al sole e, per secoli, ha illuso cercatori d’oro di tutto il mondo, guadagnandosi – non a torto – il soprannome di “oro degli stolti”. Fin dall’antichità, il minerale era utilizzato per accendere fuochi, ed è appunto dal termine “fuoco” – in greco πῦρ, ovvero “pyr” – che la pietra prende il suo nome. Sfruttata per secoli nella produzione di acciarini, per un periodo altrettanto lungo, la pirite fu escavata per l’estrazione del ferro, pratica che, tuttavia, oltre a richiedere lavorazioni lunghe e complesse, dava luogo ad un prodotto finale assai impuro e facilmente ossidabile. Fu soltanto nel 1835, che i francesi Michel e Jean-Baptiste Perret notarono che, arrostendo il minerale, si potevano facilmente ottenere anidride solforosa ed acido solforico, fino a quel momento ottenibili solo partendo dallo zolfo, con procedura, al confronto, molto più costosa: quella scoperta, nel giro di pochi anni, rivoluzionò sia i destini dell’industria occidentale, che le forme del paesaggio della Toscana meridionale.
L’acido solforico, «il talismano del ‘900»
Definito da Andrea Semplici come «il talismano del ‘900», come «una delle pietre filosofali della modernità», fin dal tardo XVIII secolo, l’acido solforico s’impose come uno degli ingredienti fondamentali della rivoluzione industriale, indispensabile alla fabbricazione di fertilizzanti, esplosivi, allumini e leghe leggere. Ma, senza di esso, non sarebbe stato neppure possibile – né lo sarebbe tuttora – depurare le acque, raffinare petroli, approntare saponi, detergenti, candele, profumi, inchiostri e coloranti, oltre ad una quantità incredibile di prodotti farmaceutici, olî minerali, gomme e liquidi per batterie. Manco a dirlo, il colonialismo ottocentesco, i due conflitti mondiali e l’arrivo del consumismo, nel secondo dopoguerra, non fecero che accrescere l’importanza di questo piccolo, grande factotum della chimica, e della pirite, da cui, come abbiamo detto, si ricavava.
Sopra: composizione di vecchi flaconi farmaceutici. Prodotto della chimica di base più utilizzato in assoluto, l’acido solforico (formula chimica: H2SO4), fra le moltissime aree d’impiego, trova applicazione nell’industria farmaceutica, come solvente per la sintesi di un gran numero di composti, fra i quali numerosi principi attivi. È, del resto, ingrediente essenziale della cosmetica, che lo utilizza per la fabbricazione di materie prime, semilavorati ed una vasta gamma di fragranze.
Da Praga a Donegani, passando per l’Unione Italiana Piriti
Ma torniamo a Gavorrano, a Francesco Alberti ed ai suoi colpi di piccone. In un contesto di tale effervescenza tecnica, ma pure di arrivismo imprenditoriale, è naturale che il suo ritrovamento non passi inosservato, ed attiri immediatamente le attenzioni di aspiranti tycoon industriali dell’Italia liberale. Il primo è Guido Praga, un avvocato romano, che, avvertito da Bernardino Lotti, si precipita in Maremma e compra i diritti minerari sul promettente giacimento. Il secondo è l’Unione Italiana Piriti, cui Praga, con ottimo guadagno, cede il bacino nel 1905. Il terzo, ed anche l’ultimo, è Guido Donegani, ambizioso ingegnere livornese, che, di fronte ai crescenti successi degli impianti di Gavorrano, nel 1910, soldi alla mano, rileva l’intera Unione Italiana Piriti per conto del gruppo Montecatini, giovane impresa mineraria della val di Cecina, di cui è da poco stato nominato amministratore delegato. Con il “colpaccio” di Donegani, la Montecatini conquista di colpo il monopolio italiano della pirite, e, con questo, dell’intera chimica d’Italia. Da quel momento in poi, per generazioni di gavorranesi che lasceranno la sella o la vanga per il martello pneumatico, la semplice parola “Montecatini” basterà ad evocare una vita di pericolo e di sacrificio, che, volenti o nolenti, un giorno diverrà per tutti orgoglio da rivendicare ed esperienza da ricordare.
Arriva la Montecatini, arriva la modernità
Con l’arrivo della Montecatini, a Gavorrano, arriva la modernità. Tutt’attorno al borghetto assonnato della Maremma toscana, spuntano pozzi, tralicci, ciminiere, si stendono cavi, si costruiscono depositi, laverie, impianti di frantumazione, flottazione e vagliatura: il ciclo di estrazione e lavorazione della pirite richiede strutture specifiche. E forza lavoro. Mentre chilometri e chilometri di gallerie si allargano nel sottosuolo, in superficie, l’azienda, che già nel 1925 vanta la proprietà di 14 miniere e 16 stabilimenti industriali in tutta la penisola, dominando il mercato nazionale dei fertilizzanti, dell’ammoniaca e delle fibre sintetiche, finanzia l’edificazione di bagni con acqua calda, spogliatoi ed infermerie dotate di attrezzature all’avanguardia, che, di fatto, finiscono per fungere da pronto soccorso per tutto il paese. E quando la manodopera locale non basta più, se ne chiama altra dal resto d’Italia, allestendo per intero nuovi quartieri residenziali alle pendici del monte Calvo, assieme a scuole, spacci, cinema ed impianti sportivi per le famiglie: la Montecatini può tutto, e promuove perfino la formazione di una banda musicale operaia, che, la domenica, nella piazza del paese, inizia a suonare solo quando arrivano i capi delle miniere.
Il dopoguerra e il boom economico:
l’apogeo del “kombinat” maremmano
Alla fine degli anni ’30, quello della Montecatini è già un colosso da più di 50.000 dipendenti, con attività che spaziano dall’estrazione mineraria alla metallurgia, dai coloranti alla farmaceutica, dalle materie plastiche agli esplosivi. Potendo anche contare su una propria rete di centrali elettriche ed elettrodotti, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il gigante italiano costituisce ormai una sorta di stato nello stato, quando decide di estendere i propri interessi anche agli idrocarburi e al petrolchimico. Agli inizi degli anni ’60, in pieno boom economico, la Montecatini possiede 195 impianti industriali sparsi in tutta la penisola, e la pirite viene lavorata nelle Colline Metallifere dalla A alla Z: come in un kombinat sovietico, infatti, si comincia a produrre acido solforico direttamente nel nuovo impianto del Casone di Scarlino, distante da Gavorrano appena pochi chilometri, e tutte le strade della zona rombano delle motociclette di operai e minatori. Proprio al culmine del suo successo, tuttavia, il gruppo chimico inizia a pagare gli effetti di alcuni investimenti sbagliati e di una concorrenza estera crescente, entrando lentamente in crisi.
Sopra: miniera di pirite di Gavorrano, primi anni ’50 – operaio Montecatini occupato nel marinaggio del materiale estratto in galleria per mezzo di una pala meccanica EIMCO “Rocker Shovel”, di fabbricazione statunitense. Brevettata nel 1938, la macchina riscosse un immediato successo mondiale, apportando una piccola grande rivoluzione al mondo della coltivazione mineraria: alimentata ad aria compressa, imitava i movimenti umani, permettendo ad un solo operaio di caricare fino ad 1 m³ di rocce in soli 25 secondi – in precedenza, lo stesso lavoro poteva arrivare ad impegnare un’intera squadra per un’ora.
Lo zolfo dal petrolio:
il colpo mortale alla pirite di Gavorrano
Sopra: minatori in pausa in una galleria di Gavorrano, 1967. Scalzati dal progresso tecnico e da una concorrenza internazionale sempre più spietata, gli impianti del monte Calvo, ormai troppo costosi, chiudono i battenti nell’estate del 1981: nel 1992 calerà il sipario su Niccioleta e nel 1994 su Boccheggiano.
Come sappiamo, il progresso tecnologico è un continuo divenire, e la storia dell’acido solforico non fa eccezione. Mentre le miniere di Gavorrano raggiungono il loro massimo sviluppo produttivo, e, quotidianamente, varcano i cancelli degli impianti più di 1.700 lavoratori, miglioramenti nelle tecniche di raffinazione degli idrocarburi rendono possibile l’ottenimento di zolfo come prodotto di scarto: a quel punto, l’estrazione dalla pirite, con il suo costoso sistema di miniere, diviene, d’un tratto, obsoleta. Nel 1971, la Montecatini, nel frattempo divenuta Montedison, cede le proprie attività minerarie a Solmine, società pubblica del consorzio EGAM, che si ritrova ben presto con i conti in rosso: l’ultima giravolta aziendale risale al 1978, quando gli interessi di Solmine, o, per meglio dire, i debiti, passano al gruppo Eni. L’ultimo rapporto di produzione delle gallerie di Gavorrano risale al 30 giugno 1981: scalzate dal progresso, le miniere del monte Calvo scompaiono tanto velocemente come sono apparse, quasi un secolo prima, dopo aver vissuto da protagoniste l’intera parabola, entusiasmante ed amara, dell’industrializzazione italiana.
Dopo lunghi lavori di recupero, nel 2003, è stato aperto al pubblico il Parco minerario naturalistico di Gavorrano: uno strumento importante, per preservare e far conoscere l’inestimabile patrimonio storico ed antropologico dell’area mineraria del monte Calvo. Il vecchio edificio Montecatini dei Bagnetti, che un tempo ospitava l’infermeria ed i servizi igienici dei minatori, è stato riconvertito a centro di accoglienza visitatori, mentre, proprio a due passi, nel piazzale antistante il vecchio pozzo Impero, è stata allestita una spaziosa tettoia attrezzata, punto di partenza delle visite guidate che quotidianamente permettono agli interessati di toccare con mano la lunga tradizione dello sfruttamento dei giacimenti sotterranei gavorranesi. Da qui, attraverso la grande sala conica con il plastico dei vecchi impianti Montecatini, è possibile avventurarsi in un’esplorazione underground del Museo in galleria, un ex-tunnel di stoccaggio esplosivi, riallestito con binari, carrelli ed un gran numero di attrezzi originali dei vecchi minatori: un’esperienza davvero suggestiva, arricchita da esperienze multimediali, alla scoperta dell’ambiente claustrofobico e delle dure condizioni di lavoro cui dovevano far fronte i cavatori della pirite, dal tardo Ottocento fin quasi ai giorni nostri. In alternativa, è possibile andare a visitare la vicina area mineraria di Ravi-Marchi, dove un percorso didattico, snodato fra le strutture dell’epoca, racconta del trasporto e delle complesse raffinazioni cui andava incontro il minerale una volta portato alla luce. Non lontano dai Bagnetti, infine, nell’alveo di una ex-cava di calcare estratto per comporre materiale di risulta per la riempita di gallerie esaurite o dismesse, sempre nel 2003 è stato inaugurato il Teatro delle Rocce, un suggestivo teatro “alla greca” da 2.000 posti a sedere che, ogni estate, ospita una stagione di spettacoli assai seguita ed apprezzata.